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lunedì 18 ottobre 2010

GRANDE FRATELLO ANDREA COCCO NUDO SEXY SENZA MUTANDE SOSIA KEANU REEVES

Personaggio pubblico    M   

Gli spettatori si mobilitano, "Per un pugno di libri" resta nel palinsesto di Raitre. E domani ricomincia

SIMONETTA ROBIONY
ROMA A furor di popolo, dopo lettere, proteste, blog, facebook, email e quant'altro, torna domani, alle 18 su Raitre, Per un pugno di libri, la trasmissione che, mesi fa, sembrava dovesse essere cancellata dal palinsesto per esaurimento e stanchezza a dieci anni dal debutto. Che improvvisamente la cultura sia diventata un prodotto d'attrazione televisiva, tanto da indurre i telespettatori a reagire in massa di fronte all'ipotesi di soppressione del programma? Neri Marcorè, cultore dell'understatement e minimalista elegante, anima di Per un pugno di libri, lo spiega così: «Non è che il programma fosse proprio stato cancellato. La rete aveva immaginato di organizzare solo uno scontro finale tra i vincitori degli anni passati e chiudere in bellezza». Però ci hanno ripensato... «C'è la questione dei due direttori che si sono avvicendati: Ruffini, Di Bella e poi ancora Ruffini. C'è che questa è rimasta una trasmissione unica nel suo genere. E certo, c'è anche che una fetta di pubblico, quel milione o giù di lì di persone che ci segue, ha fatto sentire la sua voce. Rappresentano un 5-7 per cento di share, non sono moltissimi ma molto appassionati».

Con Marcorè, il solito Piero Dorfles in panni professorali, mentre in quelli comici c'è l'attore Giacarlo Ratti. A scrivere il programma Alessandro Rossi, a dirigerlo Igor Skofic: impostazione classica con qualche variazione come un «Per chi suona la campanella», titolo da Hemingway ma intenti da Musichiere e qualche quiz in più per tener desta l'attenzione. Primo libro scelto, Il Gattopardo, in omaggio ai 150 anni dell'Unità.

«Dobbiamo ricordarcelo - dice ancora Marcorè -: in tivù, prima di ogni altra cosa, facciamo spettacolo. La cultura tediosa, cattedratica, nozionistica, non funziona. Servono bravi divulgatori, ma anche quando ci sono ottimi raccontatori come Alessandro Baricco o Philippe Daverio vengono utilizzati con eccessiva parsimonia. Resistiamo soltanto noi e gli studenti che, con le loro scuole, ci chiedono di partecipare». Li trova cambiati i ragazzini, in questi anni? «Non sono un sociologo, però sì, questi ragazzi, che certamente non sono e non sono mai stati quelli di X Factor o di Maria De Filippi, mi appaiono più disinvolti davanti alle telecamere, come se la tivù ormai fosse talmente usuale da non offrire emozioni. Ma sono anche più disillusi sul loro avvenire, come se anche per i migliori la società italiana non fosse capace di trovare una giusta collocazione. Potrei sbagliarmi, però».

Dotato dalla natura di una duttilità da Zelig, ottimo conoscitore di lingue straniere per esser stato interprete professionista, saggio amministratore dei suoi molti talenti, in questo momento Marcorè ammette di aver deciso di puntare soprattutto su una carriera da attore: è il protagonista de La scomparsa di Patò di Mortelliti da Camilleri, con Frassica, Casagrande, Herlitzka in anteprima al Festival di Roma ed è uno dei molti attori italiani di The Tourist, il kolossal americano girato a Venezia con Johnny Depp e Angelina Jolie. Forse farà una fiction, certamente farà qualcosa in teatro: una lettura da pagine di Saviano, l'assaggio a Genova, in coppia con Claudio Gioè, di un confronto tra Gaber e Pasolini.

A intrigarlo di più, però, l'esito che potrebbe avere il suo primo film francese, Tous les soleils di Philip Claudel, con Stefano Accorsi: «M'è parso di trovare sul set una civiltà di rapporti che da noi è più rara. Nessuno che alzava la voce, tutti che svolgevano il proprio lavoro nel massimo rispetto. È vero, l'orgoglio di essere francesi si sente, ma nasce dal loro senso civico. Se tutti fanno la fila, la fila la fai anche tu. Se, come da noi, molti la fila la ignorano, si è indotti a non rispettarla». E le sue famose imitazioni? La sua collaborazione storica con Serena Dandini? «Non c'è, ma resta l'amicizia». Ma per amicizia un'apparizione a Parla con me la farà? «Certo. Prima o poi. Luca Barbarossa sarà Apicella, io Berlusconi in una edizione speciale di una canzone di Gino Paoli: Senza Fini».

Gli anni del carcere: anteprima dal nuovo libro autobiografico del leader sudafricano, che svela l'uomo nascosto dietro il personaggio pubblico

Chi è davvero Nelson Mandela, l'uomo che si cela dietro il personaggio pubblico? La domanda lasciata aperta dall'autobiografia bestseller Lungo cammino verso la libertà (1994), che tratteggiava piuttosto il leader e l'icona, trova risposta nelle pagine di Io, Nelson Mandela. Conversazioni con me stesso, in uscita martedì da Sperling & Kupfer (pp. XXI-445, e20), con una prefazione di Barack Obama. Si tratta di una confessione a tutto campo, attraverso le lettere, i discorsi, le memorie di «Madiba» e le sue conversazioni con il biografo Richard Stengel. Ne anticipiamo alcuni stralci, relativi agli anni del carcere.
NELSON MANDELA
Ci portavano alla cava a scavare calce. È un'operazione difficile, perché devi usare un piccone. La calce è stratificata nella roccia. Quando trovi uno strato di roccia... per estrarre la calce devi romperlo... Loro ci mandavano là per dimostrarci che stare in prigione non è facile, non è mica una passeggiata, e perché non ci tornassimo più. Volevano demolire il nostro spirito. Mentre lavoravamo, cantavamo canzoni sulla libertà, e tutti ne erano ispirati, sai; affrontavamo il lavoro... con il morale alto, e poi ovviamente ci mettevamo a ballare al suono della musica. Poi le autorità capirono che… Questi tizi sono troppo combattivi. Hanno il morale alto. Così ci dissero: «È vietato cantare mentre lavorate». In quelle condizioni sentivi davvero la durezza del lavoro… E ovviamente nel regolamento c'era una norma che proibiva di cantare, loro la applicavano… Anche se in generale obbedivamo... quando tornavamo nelle nostre celle, soprattutto la vigilia di Natale e l'ultimo dell'anno, organizzavamo dei concerti canori e cantavamo. Alla fine si abituarono.

Le angherie dei secondini Fecero trasferire la guardia Van Rensburg da un'altra prigione... ed era un tipo davvero spietato. Aveva anche delle brutte abitudini. Quando – solo per fare un esempio – lavoravamo alla cava... lui si metteva in un punto ben preciso. E quando sentiva il bisogno di urinare, di liberarsi, urinava in quel punto, anziché allontanarsi in un luogo più intimo, lontano dai nostri occhi. Urinava esattamente dove si trovava. Presentammo una denuncia molto dura contro di lui, perché un giorno era accanto al tavolo che usavamo per servire il cibo nei piatti e quando giunse, quando giunse per lui il momento di urinare, lo fece lì dove si trovava e, anche se non urinò proprio sul tavolo, era comunque di fianco a una gamba...

La fame
La senti il primo giorno, ma il secondo... ti ci abitui. Il terzo, non senti niente tranne che hai meno energie di prima. Ma è qualcosa... cui ti abitui. Il corpo umano ha una grande capacità di adattamento, soprattutto se... riesci a coordinare il tuo pensiero, il tuo approccio spirituale con quello fisico. E se sei convinto che stai facendo la cosa giusta, che stai dimostrando alle autorità di essere in grado di difendere i tuoi diritti e di reagire, non la senti per niente.

Solo dietro le sbarre
Essere da soli in prigione è difficile. Non te lo auguro. Quello che facevano era isolarmi senza in realtà punirmi, nel senso di privarmi dei pasti. Ma si assicuravano che non vedessi la faccia di un solo prigioniero. Vedevo sempre e solo un secondino; anche il cibo mi veniva portato da un secondino. Mi lasciavano uscire mezz'ora la mattina e mezz'ora il pomeriggio, e quando gli altri detenuti erano chiusi nella loro cella.

Il secchioNon avevamo le fogne in ogni cella. [...] Per la notte, ti davano questo secchio. [...] C'era un tizio, uno dei nostri compagni, un membro addestrato del Umkhonto we Sizwe [«Lancia della nazione», l'ala armata dell'Anc, ndr]; doveva andare a... a Città del Capo e... in genere partivano molto presto, attorno alle cinque del mattino... prima che ci aprissero la cella per andare a svuotare i nostri secchi. Allora lui lo chiese al suo dirimpettaio e partì per andare in città. La sua cella era proprio di fianco alla mia, e io ricordai al dirimpettaio: «Tizio ha chiesto se per favore puoi svuotargli il secchio». E lui: «No, non sono disposto a farlo. E non lo farò. Non svuoto il secchio di un altro». Allora lo svuotai io, perché a me non importava; svuotavo il mio secchio tutti i giorni e non avevo problemi a svuotare anche quello di un altro. Andò così. Si trattò di aiutare un amico che era stato scaricato dal suo amico.

La legge della routineLa routine è la legge suprema di un carcere in quasi tutti i Paesi del mondo, e ogni giorno è praticamente uguale a quello precedente: lo stesso ambiente, gli stessi volti, lo stesso dialogo, lo stesso odore, le pareti che si innalzano fino al cielo e la sensazione costante che fuori dei cancelli del carcere ci sia un mondo eccitante cui non hai accesso. Una visita dei tuoi cari, dei tuoi amici e perfino di sconosciuti è sempre un'occasione indimenticabile, in cui si rompe quella monotonia frustrante e il mondo intero viene letteralmente fatto entrare nella cella.

La durata delle visite
All'inizio duravano trenta minuti. Perciò dovevi aspettare sei mesi per parlare trenta minuti. Poi le prolungarono a un'ora, ma i primi trenta minuti erano un diritto, gli altri trenta un privilegio. Potevano rifiutare, se volevano. Ti faccio un esempio. Te lo dicevano in anticipo: «Verrà a farti visita Tizio». Un giorno mi dissero solo: «Hai una visita». E io domandai: «E chi è?». E loro: «Non lo sappiamo». Allora chiesi: «Be', domandatelo all'ufficiale in comando; voglio vedere l'ufficiale in comando». L'ufficiale in comando entrò e gli dissi: «Ho una visita, ho chiesto alle guardie chi è il visitatore, ma mi hanno detto che non lo sanno». E lui: «Be', indagherò e ti farò sapere». Non tornò più e mi portarono nel parlatorio senza che sapessi chi fosse il mio visitatore. D'un tratto entrò la professoressa Fatima Meer. Non avevano voluto dirmelo perché Fatima Meer [scrittrice, attivista antapartheid e per i diritti delle donne, ndr] era già segnata ed era sulla lista nera, la loro lista nera. Non avevano voluto dirmelo in anticipo, ma erano stati costretti a permetterle di venire a trovarmi. E io pensai che la visita sarebbe durata un'ora. Dopo trenta minuti, esclamarono: «La visita è terminata!». E io risposi: «Ma ho un'ora di tempo». E lui: «No, hai diritto a mezz'ora. L'altra mezz'ora è a discrezione; a nostra discrezione. La visita è terminata».

La foto di famiglia
[Lettera a Winnei Mandela, 2/4/1969]
Una foto di famiglia, finalmente! [...] Hai un aspetto triste, distratto e malato, ma grazioso allo stesso tempo. La foto grande è un magnifico esempio di tutto quello che conosco di te, la bellezza e il fascino travolgente che dieci tempestosi anni di matrimonio non hanno raffreddato. Ho il sospetto che volessi che la foto trasmettesse un messaggio speciale che nessuna parola potrebbe mai esprimere. Sta' sicura che l'ho colto. Tutto ciò che desidero dirti è che la fotografia ha risvegliato tutti quei teneri sentimenti che albergano in me e ha mitigato la cupezza che mi circonda. Ha acuito la nostalgia che provo per te e per la nostra casetta dolce e tranquilla.

La morte della madre
[Lettera a K.D. Mantazima del 14/10/1969]
Mia madre l'ho vista per l'ultima volta il 9 settembre dell'anno scorso. Dopo il colloquio sono riuscito a seguirla con lo sguardo mentre s'incamminava verso la nave che l'avrebbe portata sul continente e un lampo mi ha attraversato la mente: non l'avrei più rivista. Le sue visite mi elettrizzavano sempre e la notizia della sua morte è stata un duro colpo. All'improvviso mi sono sentito solo e svuotato. Gli amici, quelli che con il loro affetto e la loro solidarietà mi hanno sempre dato la forza di andare avanti, mi hanno aiutato a mitigare il dolore e a risollevarmi un po'. Il resoconto del funerale mi ha rinfrancato. È stato bello sapere che parenti e amici erano accorsi in massa per onorare l'occasione con la loro presenza e sono stato felice di sapere che c'eri anche tu a darle l'ultimo omaggio.

Winnie arrestata
[Lettera alle figlie Zeni e Zindzi]
La nostra cara Mamma è stata di nuovo arrestata e adesso lei e Papà sono in prigione. Mi sanguina il cuore al solo pensarla seduta in una qualche cella, lontano da casa, magari sola, senza nessuno con cui parlare né qualcosa da leggere. Ventiquattr'ore su ventiquattro a pensare solo alle sue piccoline. Potrebbero trascorrere mesi o perfino anni prima che possiate rivederla. Potreste dover vivere a lungo come orfane senza più casa né genitori, senza l'amore, l'affetto e la protezione che la Mamma vi dava. Niente feste di compleanno o di Natale, niente regali né vestiti nuovi, scarpe, giocattoli. Sono passati i giorni in cui la sera, dopo un bel bagno caldo, sedevate a tavola con lei e gustavate i piatti semplici ma deliziosi che preparava. Niente più letti comodi, coperte calde e biancheria pulita. Lei non ci sarà per chiedere agli amici di portarvi al cinema, ai concerti o a teatro, non sarà lì a raccontarvi una bella storia prima di andare a letto, aiutarvi a leggere i libri difficili e rispondere alle tante domande che vorreste farle. Non potrà darvi l'aiuto e la guida di cui avete bisogno mentre crescete e nuovi problemi bussano alla porta. Forse Mamma e Papà non torneranno più all'8115 di Orlando West, l'unico luogo al mondo che ci è davvero caro. [...]

La morte del figlio[Lettera a Winnie del 16 luglio 1969]
[...] Non riesco a credere che non rivedrò mai più Thembekile. Il 23 febbraio di quest'anno ha compiuto 24 anni. L'avevo visto verso la fine del 1962, pochi giorni dopo il mio ritorno a casa. All'epoca era un bel diciassettenne vigoroso, quanto di più lontano potesse esistere dalla morte. Indossava un paio di miei pantaloni, appena troppo larghi e lunghi per lui. Un fatto significativo, che mi ha dato da pensare. Sai bene che aveva un sacco di vestiti, che ci teneva tanto all'abbigliamento e perciò non aveva alcun motivo di mettersi qualcosa di mio. Ero profondamente colpito perché le ragioni emotive di quel suo gesto erano fin troppo ovvie. Per giorni ho avuto animo e cuore sconvolti dalla consapevolezza delle tensioni e del logorio che la mia assenza imponeva ai bambini. Ho ripensato a un episodio accaduto nel dicembre 1956, quand'ero prigioniero e in attesa di giudizio alla Fortezza. Allora Kgatho aveva 6 anni e viveva a Orlando East. Sapeva bene che ero in carcere e se n'è andato fino a Orlando West per dire alla nonna che gli mancavo. Quella notte ha dormito nel mio letto. [...]
© 2010 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. Traduzione di Claudia Lionetti, Marilisa Santarone e Cristina Volpi «Conversations by Myself» Testo: copyright © 2010 by Nelson R. Mandela and The Nelson Mandela Foundation /Agenzia Santachiara Ideazione e grafica: copyright © 2010 by PQ Blackwell Limited /Agenzia Santachiara

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